sabato 20 maggio 2023

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domenica 17 dicembre 2017

domenica 25 novembre 2012

 Tratto dal sito: www.corriere.it

 http://www.corriere.it/esteri/12_novembre_03/info-ladies-bangladesh_1aceb494-259c-11e2-a01c-141eb51207fd.shtml

Le info ladies, in bici nei villaggi
per «portare» la Rete

Dozzine di donne con laptop e connessioni in zone remote del Paese. Un servizio per migliaia di persone

Un gruppo di info ladies arriva in un villaggio del Bangladesh (Ap/A.M.Ahad) Un gruppo di info ladies arriva in un villaggio del Bangladesh (Ap/A.M.Ahad)
Amina Begum ha 45 anni. Vive in un remoto villaggio del Bangladesh. Dal quale riesce a parlare via Skype con il marito lontano. Può farlo grazie alle info ladies, giovani donne che arrivano in bicicletta nelle zone più povere e sperdute del Paese, portando con sé laptop e connessioni Internet. Un importante servizio per le comunità abitate da famiglie di contadini in miseria, che possono così avere accesso alla Rete e acquisire informazioni su qualsiasi cosa.

lunedì 7 novembre 2011

APOGEONLINE

Mutazioni digitali

Perché a Twitter non piace Servizio Pubblico

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Michele Santoro
07
nov
2011
La trasmissione di Santoro esce dal palinsesto per diventare un esperimento di televisione di servizio ad azionariato diffuso e con declinazioni intermediali. La prima realtà indie della tv italiana? Meno di quanto ci si aspetterebbe, a leggere i commenti su Twitter
Conosciamo bene le strategie di messa in onda del nuovo programma di Michele Santoro, Servizio Pubblico, che ha stimolato la sua audience attraverso un’operazione di azionariato diffuso: bastavano 10 euro per renderlo un evento possibile e ha raccolto circa 100.000 sottoscrittori-associati. Sì, perché alla base dell’organizzazione troviamo l’Associazione Servizio Pubblico che nello statuto ne declina così le finalità: «L’associazione non ha fini di lucro neanche indiretto e si propone di favorire la più completa libertà d’espressione, la libera circolazione delle idee e la piena attuazione del pluralismo nei mezzi di comunicazione. Finalità dell’associazione è la promozione di iniziative e attività culturali, di formazione e ricreative, per attivare l’incontro tra le diverse identità culturali dell’Europa e del Mediterraneo e quindi contribuire allo sviluppo civile e culturale degli associati e, in generale, dei cittadini dell’Unione Europea».
Non solo spettatori
La promessa è: non siete solo spettatori, fate parte di qualcosa e con la vostra piccola azione economica rendete possibile questo “qualcosa”, siete editori diffusi e pubblico allo stesso tempo: il sogno pro-am sembra realizzarsi nella nuova intermediazione complessa che viene messa in piedi per realizzare il ciclo di programmazione. Mood ottimista: la prima realtà indie della (post)televisione italiana. Una televisione “di servizio” che nello strutturare i contenuti vuole proporre un pluralismo senza i vincoli del contraddittorio della lottizzazione da partito. Come ha commentato Carlo Freccero, «Mettiamoci un bel punto, spazziamo il vecchio. Andiamo oltre il nemico, il contraddittorio, il pesetto di maggioranza. Non c’è bisogno di avere la Santanché o Ghedini. Questa comunità ha rivoluzionato la televisione. Stringiamoci intorno al nuovo, e smettiamola di creare teatrini e presepi con chi dice qualcosa e chi replica col contrario. Abbiamo visto una trasmissione nuova con un modo nuovo».
Partiamo dal modo nuovo. Il canale di messa in onda è quello intermediale, già sperimentato durante “Rai per una notte”, un mix di diretta web (anche dai siti de Il Fatto Quotidiano, Repubblica e Corriere della Sera), tv locali (con presenza praticamente in ogni Regione) e qui spinto più a fondo grazie all’accordo con Sky, quindi con una piattaforma possibile di pubblico più ampia. Strategico questa volta nel concept della trasmissione l’uso dei social network, in particolare con la pagina Facebook, con 185.533 adesioni a oggi e 181.071 persone che ne parlano, come dire: buzz delle audience garantito. E da lì web-spettatori hanno assistito alla diretta della prima puntata, giovedì 3 novembre.
Che cosa dicono i numeri
Difficile per questo tipo di televisione – ma possiamo ancora definirla tale o sarebbe meglio videoevento, trasmissione intermediale o qualcos’altro che verrà? – definire chiaramente il successo di “visione”, perché l’audience non è raccolta come nella tv tradizionale davanti a uno schermo, ma occorre mappare le forme di fruizione sparse. Raccogliendo le tracce scopriamo che la prima puntata andata in onda giovedì 3 novembre ha raccolto questi numeri:
  • 12,03% di share assommando gli ascolti di tv regionali (2.276.418 spettatori) e SkyTg24 Eventi (645.113), altri dati stimano tra 12% e 14% complessivo;
  • 172.000 spettatori che hanno seguito lo streaming su Facebook;
  • 400.000 utenti sul sito del Corriere della Sera e altri 400.000 sui siti del Fatto Quotidiano e dell’associazione Servizio Pubblico, mentre su Repubblica.it 5 milioni di contatti e più di 300.000 utenti medi contemporanei.
A questo andrebbero aggiunti dati qualitativi tutt’altro che trascurabili, come il fatto che la pagina Facebook ha raccolto «120.000 risposte complessive ai sondaggi e più di 5.000 commenti» o che è stato «l’evento live più seguito di sempre su iPhone e iPad in Italia, con un picco di 4.000 utenti contemporanei» oppure che è stato trending topic su Twitter per l’intera serata, con 2.500 follower che si sono aggiunti durante l’evento. Queste cifre sono tutte raccolte nel manifesto riassuntivo sui principali risultati delle audience tele-connesse pubblicato su Facebook. Per tutto questo Michele Santoro ha potuto definire la serata come «una rivolta contro il degrado della tv generalista occupata dai partiti, sia nel pubblico che nel privato» e dichiarare che «lavoreremo per estendere questa rivolta, per trasformarla in rivoluzione».
Commenti su Twitter
Fin qui i commenti della componente generalista, dei giornali, del conduttore, degli esperti di cose della televisione che vedono ed esaltano la dimensione rivoluzionaria del nuovo, del fare televisione nell’epoca del web e dei social network. Ma io vorrei tornare proprio al rapporto tra “nuova trasmissione” e “modo nuovo” di farla. Immaginate di avere “visto” la puntata di Servizio Pubblico attraverso Twitter, cioè con gli occhi di una audience connessa che rappresenta forse oggi in Italia la realtà meno generalista, più critica e politicizzata. Forse estremizzo per capirci, ma non di molto. Il corrispettivo delle audience generaliste sta invece su Facebook. Beh, dicevo, se guardavate da qui la puntata al successo numero del pubblico si associa immediatamente un mood critico che potremmo riassumere con: è piaciuta così così.
Se vi fosse andato di giocare alla misurazione del sentiment avreste visto un 25% con valore negativo, un 65% in grigio e solo un 10% con valore positivo. E le indicazioni che derivano dall’analisi dei contenuti dei tweet è utile per capire cosa non è andato.
@lucasofri: “Noia, vado a leggere di meglio, buonanotte”.
@Jacopopaoletti: “@lucasofri avrebbe dovuto essere un modo nuovo (e possibilmente diverso) di fare informazione e approfondimento, peccato”.
Sui contenuti
A proposito del contenuto. Spazzare via il contraddittorio mantenendo il format tutto sommato di Anno Zero ha depotenziato l’efficacia del programma:
@damnation4sale “#ServizioPubblico una puntata tipica di anno zero solo più lunga e più libera. Attendiamo di meglio ancora!”
Anche la gestione dei tempi va rodata per evitare l’effetto monologo:
@lucasofri “Insomma, la nuova invenzione televisiva di #ServizioPubblico è il #pippone” pippone senza fine”
@gianlucaneri “Durante l’intervento di Travaglio è tornata l’ora legale”
Va bene eliminare il contradittorio ma lasciare il format sostanzialmente invariato produce un effetto da prove generali:
@webgol “Manca un feticcio narrativo di cdx da punzecchiare con sadismo fumogeno. E così del rito di Santoro si vedono le quinte, tipo B-movie”
Sul finanziamento
C’è poi la questione del finanziamento: va bene, azionariato diffuso, 10 euro pagati, ma comunque le interruzioni pubblicitarie le abbiamo avute e in dosi rilevanti:
@mante: “Il servizio è pubblico ma la pubblicità è da privati #serviziopubblico”.
@s_grizzanti: “#serviziopubblico ha pure al pubblicità? Dopo che ha chiesto 10€ a persona per autofinanziarsi? Cazzo conviene pagare il canone Rai!”
@calogerogrifasi: “Mandate pure la pubblicità ma restituite i 10,00€ #serviziopubblico”.
Il dubbio su cui si è discusso online circa la natura di quella pubblicità – se fosse del programma o dei canali – è facilmente risolvibile leggendo le dichiarazioni di Publishare :
Publishare ha gestito la raccolta pubblicitaria su Servizio Pubblico, quattro break da quattro minuti ciascuno che sono andati in onda in diretta nazionale sul network di tv regionali; gli stessi spot sono stati trasmessi anche da tutti i siti internet che avevano in streaming il programma.
@ItalianPolitics: “Cacchio! #Santoro: “Prevediamo un costo/puntata di circa €250mila a puntata”. Ma usi più streaming e voip a basso costo!”
Oltre il palinsesto
Veniamo poi alla novità della dimensione intermediale e dell’uso del web. Beh quella si è consumata – e celebrata – con Rai per una notte. Lì abbiamo visto che i pubblici connessi ci sono e che era possibile pensare un modello diverso. La novità non può essere che ci si rivolga al pubblico in rete ma il come. Ci si aspettava quindi di più:
@diritto2punto0 “#serviziopubblico mi sembra pensato ancora per la televisione. Il web, per ora, appare un ripiego se l’interazione è limitata al sondaggio…”
È vero, che ci sia il web, che si facciano i sondaggi su Facebook, che il pubblico diventi follower su Twitter rappresenta, al solito, un tema di estremo interesse per i media generalisti. Ma quella che abbiamo visto resta televisione, una tv che sostituisce al televoto il like. La partecipazione degli azionisti diffusi non l’abbiamo vista. Fatevi fare domande dal web, mandate nel sottopancia i tweet o fateli scorrere in uno schermo dietro chi parla prendendole come provocazioni, create canali multipli di interazione, portate la redazione social network in studio… le cose da fare possono essere molte, semplici e complesse, rischiose o meno. Ci avete fatto comprare il diritto di fare una nuova televisione intermediale, nessuno vi censurerà né vi farà uscire dal palinsesto.


Giovanni Boccia Artieri è professore straordinario presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino "Carlo Bo", dove insegna Sociologia dei new media e Comunicazione pubblicitaria e linguaggi mediali. Dirige il corso di laurea in Scienze della Comunicazione e un dottorato in Sociologia della comunicazione e scienze dello spettacolo. Si occupa delle culture pop della Rete e delle mutazioni digitali prestando particolare attenzione ai social media e ai mondi online.

sabato 5 novembre 2011

APOGEONLINE

Open government

Accesso agli atti, impariamo dall’Unione

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04
nov
2011
Ogni documento pubblico comunitario è disponibile dietro richieste nell’arco di due settimane. Non proprio quel che avviene in Italia, dove i tempi sono incerti e ha diritto solo il diretto interessato
Si sente parlare sempre più spesso di dialogo con la pubblica amministrazione, di open data e di accesso agli atti amministrativi. Spesso però i cittadini non sanno quali siano i propri diritti in questo campo, né come farli valere.  Access Info, una organizzazione non governativa internazionale, ha deciso di lavorare su questi temi sensibilizzando i cittadini di tutta Europa con il progetto Ask The EU. Il sito permetterà ai cittadini di indirizzare le loro richieste di accesso agli atti pubblici delle istituzioni europee con una semplice email. Dalla spesa pubblica all’inquinamento di aria e acqua, sono molte le informazioni che i cittadini possono chiedere per capire meglio il funzionamento della pubblica amministrazione, anche quella del proprio Paese.
Diritto d’accesso
Il diritto di accesso ai documenti pubblici è stabilito dal regolamento 1049/2011: qualsiasi cittadino dell’Unione ha la possibilità di accedere ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione. Chi fa richiesta, inoltre, non deve giustificarla, una precisazione niente affatto scontata se si pensa che in Italia, tanto per fare un esempio, possiamo effettuarla solo se l’atto in questione ci riguarda. Le istituzioni europee sono tenute a rispondere alle richieste entro 15 giorni lavorativi: le risposte arriveranno direttamente nella casella di posta di chi ha fatto domanda, ma anche presso Ask The EU che le pubblicherà sul sito, creando progressivamente un database di risposte liberamente consultabile.
Ma che tipo di informazioni potremmo chiedere alle istituzioni europee? Negli ultimi tempi sentiamo spesso parlare di Europa in relazione alle misure economiche per fronteggiare la crisi. E l’Unione europea influenza le politiche nazionali in misura sempre crescente: è stato stimato che circa la metà delle leggi nazionali vengono create per ottemperare a direttive e leggi europee (quasi il 70% per le leggi che riguardano l’economia). Ma moltissimi dei 500 milioni di cittadini europei non hanno idea dell’effettivo ruolo di queste istituzioni: per questo motivo Ask The Eu si muove in modo massiccio anche sul versante della sensibilizzazione con delle campagne mirate previste in tutta Europa. Un compito tutt’altro che semplice. «È opportuno tenere presenti comunque un paio di elementi”, spiega Ernesto Belisario, avvocato ed esperto di open government. «In alcuni Paesi le legislazioni in materia di accesso all’informazione pubblica sono relativamente recenti e quindi è necessario un mutamento culturale per acquisirne consapevolezza; inoltre, molto spesso le istituzioni tendono a porre in atto “applicazioni al ribasso” di queste riforme perché ne hanno paura».
Istituzioni alla prova dai cittadini
Al momento le istituzioni europee ricevono solo 10.000 richieste all’anno, in pratica una per ogni 50.000 cittadini dell’Unione. Molte di queste informazioni sono disponibili sui siti ufficiali, ma spesso è difficile trovarle persino per giornalisti e addetti ai lavori, dicono gli esperti di trasparenza che lavorano in ambito europeo. E il controllo sull’operato delle istituzioni, la responsabilizzazione di chi ci lavora è uno dei compiti più importanti di un’iniziativa del genere, spiega Pam Quintanilla, responsabile del progetto: «Le leggi non sono tutto: occorre che i dipendenti pubblici capiscano che questo non è un ulteriore carico di lavoro, ma un modo di guadagnare fiducia e reputazione dai cittadini. Insomma, una parte fondamentale del loro lavoro.
Nato formalmente il 28 settembre scorso, in occasione del Right to Know Day, Ask The Eu è ora pienamente operativo. Se il suo funzionamento appare estremamente facile, non sarà certo altrettanto immediato superare ostacoli come diffidenza e sfiducia verso le istituzioni: «La consapevolezza è scarsa, tranne alcune eccezioni. L’aspetto che più mi preoccupa, in prospettiva, è la rassegnazione dei cittadini di fronte ai meccanismi burocratici», sostiene Belisario. Questo però sembra il momento giusto per un passo del genere, spiega chi si occupa di trasparenza in Europa: un progetto di questo tipo, condiviso da diverse organizzazioni, può davvero fare la differenza, se non altro nel mostrare la semplicità dei processi e consentendo di superare la percezione di lontananza e difficoltà nell’accesso a informazioni rilevanti. Ne è sicura Quintanilla: «Il giudizio dell’opinione pubblica è spesso un buon catalizzatore per il cambiamento delle istituzioni».

lunedì 26 settembre 2011

APOGEONLINE

Mutazioni digitali

Il tunnel della Gelmini, i tic dei giornalisti e noi

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26
set
2011
L’infortunio del ministro, le ghignate dei cittadini, la gara alla battuta su Twitter, il pezzo di colore sui giornali. È davvero tutto qui?
Quest’ultimo anno di esperienze di civic engagement della parte abitata della rete italiana ci ha mostrato una costruzione della realtà informativa del Paese che vede relazionarsi in modi nuovi e complessi media mainstream e contenuti web. Sul lato della produzione di contenuti dal basso abbiamo visto la dinamica attraverso cui le persone si appropriano di un terreno proprio dell’informazione usando l’ironia, la potenza di connessione e la visibilità permessa dall’uso degli #hashtag su Twitter.
Flirt con l’hashtag
Basta ricordarsi dei  #morattiquotes, nati attorno alla campagna amministrativa milanese dopo una affermazione calunniosa su Giuliano Pisapia fatta durante un confronto televisivo da parte di Letizia Moratti. Oppure dei #masiampazzi dedicati a Pierluigi Bersani durante il referendum, un po’ stimolati dal Crozza televisivo e un po’ rilanciati in rete dal PDNetwork, in uno dei primi esempi di autoironia politica funzionale alla costruzione di un clima referendario. I media generalisti hanno flirtato con questi contenuti producendo articoli e servizi che miscelavano l’espetto di costume con il contenuto politico, spesso approfondendo poco le motivazioni alla base di questo tipo di produzioni: un pizzico di indignazione, tanta ironia e, alla fine, una moda diffusa da riprendere quando si è alla ricerca di un modo di portare la rete come news sulle argomentazioni in agenda:
Ricordate le Morattiquotes e #colpadiPisapia, i tormentoni su Twitter che avevano scandito la fine dell’era di Letizia Moratti come sindaco di Milano? […] Le ultime dichiarazioni del premier Berlusconi dopo il declassamento del rating da parte di Standard&Poor – “è tutta colpa dei media” – stanno ottenendo un effetto simile.
Gelmini e neutrini
La settimana scorsa abbiamo visto con chiarezza ancora maggiore quanto sta accadendo nel rapporto tra informazione prodotta e distribuita dal basso e media. Prendiamo il caso del #tunnelgelimini. Un comunicato stampa del Ministero dell’Università e della Ricerca cita l’esperimento del Cern con i neutrini ed esprime le (auto)congratulazioni del ministro Gelmini per aver sostenuto la «costruzione del tunnel tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l’esperimento». L’hashtag #tunnelgelmini comincia a far emergere contenuti connessi a questa news, diventa in brevissimo tempo trending topic su Twitter (ovvero entra nella classifica degli argomenti più discussi) e la porta all’attenzione dei media. I primi articoli vengono messi online nel giro di poco.
Sul sito dell’Unità: «Su Internet è già un cult. È il tormentone del tunnel della Gelmini. Tra i “trending topics”, ovvero gli argomenti più twittati in Italia, alle 13.45 l’hashtag #tunnelgelmini è al secondo posto». E de La Stampa: «”Tunnel tra il Cern e il Gran Sasso”, il Web ride per la gaffe della Gelmini». Seguono edizioni serali dei telegiornali. La consapevolezza da parte di chi produce contenuti sul web di diventare parte del flusso mediale comincia a manifestarsi. Bastet scrive in un Tweet: «Mi trovo citata su @SkyTg24 insieme ad altri per un RT di @GBA_mediamondo (link#tunnelgelmini». Catepol: «Ciao mamma i miei tweet son passati al Tg3 #tunnelgelmini».
Un po’ di colore
I media inglobano l’uso tattico dei tweet dandogli voce, amplificandolo, e allo stesso tempo riconducendolo all’interno delle logiche informative dei media stessi: si tratta solo di news, tutte equivalenti, spesso utili a colorare i pezzi con luoghi comuni come «lo dice il web». Inoltre l’interpretazione del significato che sta dietro alla produzione di ogni tweet viene espropriato a chi lo produce per diventare racconto mediale. Su La Repubblica leggiamo:
Sarcasmo, cinismo, ironia. Una valanga di freddure che si diffonde su tutti i social network. Su Twitter #tunnelgelmini è già un cult: decine di commenti al secondo. Studenti, ricercatori, semplici cittadini. Tutti a sottolineare lo svarione del ministro. E per la serie la fantasia al potere non mancano neanche i fan di Harry Potter: “Si informano i signori passeggeri che il binario 9 e 3/4 non conduce a Hogwarts, ma al Cern di Ginevra”.
Rabbia e indignazione
Sarcasmo, cinismo, ironia? Una valanga di freddure? Harry Potter? E perché non rabbia o indignazione? Se leggete il flusso non trovate solamente l’atteggiamento di chi partecipa a un grande gioco di gruppo, magari con la speranza di vedersi citato nei media – atteggiamento che, dopo le ultime esperienze, ci dobbiamo aspettare anche nella parte abitata della rete, altrimenti fatico a capire chi sforna con una continuità imbarazzante tentativi di “freddure”. Trovate anche l’indignazione politica: «Ma poi quando abbiamo finito di ridere gliele chiediamo le dimissioni?». «I neutrini viaggiano più veloci della luce.. ma le cazzate della germini sono irraggiungibili…». «Adesso almeno sappiamo dove sono finiti i soldi tagliati alle Università negli ultimi tre anni». E così via. L’ironia come tattica non è un equivalente di freddura.
È difficile per i media capire e spiegare che cosa muova centinaia di persone a produrre e a condividere contenuti taglienti, talvolta sbeffeggianti, spesso pacati anche se ironici. Alla fine si riduce tutto a un fatto di costume, a una moda, al limite a una velata protesta. Ma è solo un strategia del giornalismo affamato di facili novità che dà troppa voce a delle chiacchiere da bar come scrive Piero Vietti?
Ormai è chiaro, Twitter è la nuova arma del giornalista collettivo e pigro. Basta che un argomento qualsiasi sia twittato da qualche decina di persone che ecco compaiono subito articoli, gallery e titoloni sui principali giornali on line. Nessuno ci salva da pippe mostruose su il-popolo-della-rete (declinato in questi casi in il-popolo-di-twitter) che fa-impazzire-i-social-network a colpi di tormentoni-sul-web […] Il meccanismo è pazzesco, a volte funziona, spesso produce articoli che hanno lo stesso valore di una chiacchierata al bar.
Opinione pubblica
Oppure siamo di fronte a un tentativo di (ri)appropriarsi del territorio dell’informazione, di scuotere con una semantica diversa il modo di raccontare il nostro Paese? Capisco che sembri difficile pensare a semplici tweet come a un modo di costruire l’opinione pubblica. Eppure possiamo pensare a questi fenomeni come il tentativo di riprendere nelle nostre mani la narrazione, il racconto di quello che proviamo a vivere nel nostro Paese. Ed è un racconto fatto in modo trasparente e visibile, in pubblico. Un racconto che mette in relazione gli ambiti privati delle nostre vite (essere studenti, operai, intellettuali, genitori) con temi di interesse generale.
Una narrazione fatta di tanti racconti aggregati, ricercabili, che si spargono e vengono rilanciati, che incontri accidentalmente come contenuti, per esempio un tweet prodotto da un friend e ti fa leggere pagine di approfondimento online da consigliare con il tweet successivo. Narrazioni che ti fanno sentire parte di qualcosa che va oltre il fatto di essere un singolo individuo e che ti fanno pensare che questo sentirti parte di qualcosa ha un valore. Piccoli passi, certo, ma che stanno dietro alle possibilità di trasformazione di una società.

martedì 20 settembre 2011

APOGEOONLINE

Mutazioni digitali

La guerra dell’identità e il diritto al soprannome

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19
set
2011
Google+ cancella il profilo di chi non si registra con nome e cognome. Una scelta drastica, che taglia con l’accetta la complessità delle nostre vite online
Le differenze culturali tra i modelli proposti da Google+ e Facebook hanno a che fare con l’idea di socialità e con la conseguente immediatezza nel riconoscere con chi condividere contenuti: l’idea delle cerchie, ad esempio. Sembrano quindi trattare la privacy in modi culturalmente diversi. Eppure, guardando meglio, ci troviamo di fronte alla stessa prospettiva culturale del significato da attribuire all’essere online: tu devi essere online con la tua reale identità, cioè con il tuo nome vero.
Pseudonimi
È questo il principio che Google+ sta proponendo con forza, cancellando i profili di tutti coloro che non si registrano con il proprio nome reale. La policy recita: «To help fight spam and prevent fake profiles, use the name your friends, family or co-workers usually call you». Il che significa l’abolizione di nickname e pseudonimi, oltre di nomi non standard che contengono caratteri linguistici diversi, Ascii eccetera. Questa regola ha dato vita a una guerra degli utenti che va sotto il nome di Nymwars (contrazione di pseudonym wars) e ha generato un dibattito pubblico che ha fatto di questa policy la cartina di tornasole del rapporto tra vita online e logiche di mercato, tra identità ed esperienza. Cory Doctorow spiega chiaramente che si tratta di una politica che incarna
una teoria controversa sull’identità: le nostre vite sarebbero vissute in modo migliore se avessimo una singola identità persistente in ogni contesto nel tempo, così i tuoi nonni avrebbero la stessa esperienza di te che ha la persona che ami, il tuo capo vedrebbe lo stesso lato di te che vede tuo figlio.
Modelli
E non rispondetemi che basta creare le giuste cerchie o settare la privacy dei contenuti in modo oculato. Oppure, come fa Google, che uno non è obbligato a iscriversi. Qui stiamo discutendo di un modello sociale online di costruzione dell’individuo che viene imposto e del suo futuro come modello dominante nei social network e oltre: abbiamo tutti i diritti di parlarne e di cercare di capirne le conseguenze. Prendiamo per ora il rapporto fra forma dell’esperienza online e rete di friend. Opensource Obscure è il nome da avatar su SecondLife di un utente italiano che ha il profilo sospeso e che ci spiega la contraddizione che legge nella policy di G+: «È l’unico modo in cui sono conosciuto su internet. I Community Standard di Google dicono di “usare il nome con cui normalmente ti chiamano i tuoi amici, la tua famiglia o i tuoi colleghi” e nel mio caso è “Opensource Obscure”. E tuttavia il mio profilo è tuttora sospeso a causa del nome che ho scelto».
La sua riconoscibilità su internet passa dal suo pseudonimo, che è ricco di storia, di relazioni, di contenuti prodotti e condivisi. Vale la pena di ricordare che una piattaforma come Second Life obbliga a scegliere i cognomi dell’avatar entro un set di cognomi fittizi definiti, promuovendo, di fatto, l’anonimato o il semi-anonimato come policy di ingresso. Siamo di fronte a un conflitto razziale: abbiamo moltissimi potenziali utenti di una piattaforma (Second Life) trattati come migranti che devono cambiare il loro nome per entrare nella civiltà (Google+) abbandonando i nomi tribali della loro comunità per accettare di essere naturalizzati come cittadini del nuovo mondo.
Vita online
Ma poniamo anche che il nome Opensource Obscure sia fonte di una scelta razionale, non mi interessano le motivazioni che lo hanno portato a scegliere uno pseudonimo per stare in rete. Quello che conta è che la vita online di Opensource Obscure deve essere cancellata e ripartire dall’era di fondazione di G+, un’era che dovrebbe essere più autentica e reale, secondo la visione un po’ distorta di Google. Molti di coloro che hanno commentato la naming policy si sono concentrati sui problemi di riconoscibilità e distinzione di un nome reale da uno inventato che spesso porta ad accettare nomi falsi (come nel caso di Violet Blue) o sul fatto che in alcuni paesi è possibile cambiare legalmente il proprio nome, con conseguenze su una modifica successiva dell’account, oppure sull’esistenza contemporanea di nomi diversi in contesti diversi (magari sei Lady Gaga per il pubblico, ma gli amici ti chiamano Stefani Joanne Angelina Germanotta, o magari accorciano anche il tuo nome “reale”).
Si tratta certamente di obiezioni sensate che mostrano la complessa relazione tra identità e identificazione, ma presuppongono comunque una riconoscibilità in qualche modo pubblica dell’individuo attraverso il suo nome. A mio parere invece il problema va più in profondità, alle radici, come dicevamo all’inizio, del nostro modo di risiedere in rete e di utilizzare la rete. La prospettiva che emerge dalle policy di Google+ è chiara: la forma di evoluzione della civiltà, nella sua propaggine digitale, sta nell’abolire l’anonimato. L’anonimato è una delle forme su cui si è costruita la cultura internet. La possibilità di produrre e distribuire informazione e costruire conversazioni e forme comunicative online dietro a un nickname fa parte delle radici del nostro modo di stare in rete.
Chat
Ad esempio le comunità Irc ci hanno mostrato come le persone preferissero avere un nome de plum online, che era però un elemento identitario e identificativo forte del soggetto anonimo. Infatti usare il nick di un altro rappresentava un tabù che dava vita a veri  e propri processi pubblici e autodafé. Oppure pensiamo alla mitologia sorta attorno agli pseudonimi nella cultura hacker. È così che ci ricordiamo ancora un phreaker come Captain Crunch, che ha diffuso un sistema per aggirare le compagnie telefoniche negli Stati Uniti – scoprendo per caso che il fischietto omaggio dei cereali Cap’n Crunch, emetteva un suono con la frequenza giusta per telefonare gratis – e che è riuscito a farsi passare al telefono il Presidente Nixon comunicandogli una grave crisi nel Paese: «Siamo senza carta igienica, Signor Presidente».
Oppure pensiamo alle radici della storia personale di Julian Assange, ideatore di una forma di wikileakscrazia, che affondano dietro lo pseudonimo da hacker che aveva assunto a 16 anni: Mendax. È Mendax a scrivere alcune regole base della cultura hacker: «Don’t damage computer systems you break into (including crashing them); don’t change the information in those systems (except for altering logs to cover your tracks); and share information». Come dire: l’anonimato online ha sì a che fare con le forme dell’identità che gli individui assumono, ma è un affare che va oltre la dimensione personale. Non è solo una diffrazione del sé, ma un principio culturale che da subito si connette alla libertà di residenza digitale e di propagazione dell’informazione.
Anonimato
Non sempre dobbiamo confondere l’anonimato con forme di inganno, truffa o insicurezza dell’abitare i territori digitali. Al contrario, possiamo pensare all’anonimato digitale come una forma di resistenza dell’individuo a tutta l’assoluta trasparenza e sovraesposizione cui le piattaforme ci assoggettano, rovesciando la prospettiva dell’essere sicuri dalla visibilità assoluta a una visibilità celata: io se voglio sono il mio nick.



Giovanni Boccia Artieri è professore straordinario presso la Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino "Carlo Bo", dove insegna Sociologia dei new media e Comunicazione pubblicitaria e linguaggi mediali. Dirige il corso di laurea in Scienze della Comunicazione e un dottorato in Sociologia della comunicazione e scienze dello spettacolo. Si occupa delle culture pop della Rete e delle mutazioni digitali prestando particolare attenzione ai social media e ai mondi online.
In Rete: mediamondo.wordpress.com

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